La pubblicità al tempo del Corona (ovvero il Tamarindo aristotelico)

By on Mag 6, 2020 in Contemporaneità

Stavo sorseggiando un bicchiere di spuma al Tamarindo, bevanda inutile per la profilassi del Corona, ma gradevole e dissetante, quando l’occhio mi è caduto su una indagine di mercato condotta nel mese di marzo per misurare il gradimento degli spot “con il contagio”. Risultati bulgari come si diceva un tempo: come un sol uomo gli italiani reclamano il ritorno, cito letteralmente il report a ciò che la pubblicità “ha sempre proposto: un mondo ideale, allegro, positivo, dove le marche restano vicine al consumatore, magari proponendo nuovi servizi, ma regalando sempre un momento di svago”.

Per carità di patria sorvolo sull’idea alla Carolina Invernizio che si sono fatti i ricercatori della pubblicità in Italia, ognuno si fa il film più utile al proprio orticciuolo; invece il pensiero corre alle allegre sere di clausura in cui la pub l’ho beccata facendo il salto (anche questo è uno spillover) tra Netflix, Amazon Prime e Disney Plus, quando l’elettrodomestico si sintonizzava su uno qualsiasi dei canale nazionali, l’ultimo selezionato tipo Focus piuttosto che Real Time, quello che trasmette le storie cicciose del dottor Nowzaradan. E poiché da tempo guardiamo solo film o serie tv, la pubblicità nostrana è divenuta un evento a cui assisto con lo stupore dei viaggiatori delle “Lettres persanes” di Montesquieu.

Così ho visto spot che altrimenti non avrei potuto vedere: Pupa, Vodafone, Star, Poltrone e Sofà, Iliad, Kia, Esselunga… Desolatamente simili, il cui il plot narrativo contrappone la vita d persone rinserrate nelle loro case al vuoto metafisico della città: il “pieno” della famiglia, rigorosamente attiva, allegra e affettuosa, contro il “vuoto” della città. Un messaggio vagamente paternalistico (“fate i bravi, restate a casa…”) in cui traspare il timore inconscio, la ur-nevrosi, di ogni brand: la paura dell’oblio, la fungibilità, la marginalità. Torneremo, tornerete, sussurrano le vocine dei brand. Andrà tutto bene… presto uscirete di casa… tornerete ad acquistarci, a premiarci, a raccoglierci dallo scaffale del supermercato, come faceva la vostra mamma e, prima della mamma, la nonna. Non ti scordar di me… Andrà tutto bene, hashtag, hashtag bambini buoni…

Mi ero fatta l’idea che l’origine di questa altrimenti incredibile pochezza narrativa fosse da attribuire all’immarcescibile provincialismo del belpaese. Sbagliavo. Un articolo di “Artribune” sulle campagne di brand come Samsung, Apple, Fedex, Heineken, Facebook e Lexus, dedicate a mercati infinitamente più sofisticati del nostro, mi costringe a ricredermi. Con il Corona tutto il mondo si banalizza e si fa paese. Scrive Artribune “Strade deserte, riprese dall’alto, musiche drammatiche e slogan buonisti. Ecco la pubblicità al tempo del coronavirus”. L’esatto contrario di quanto dovrebbe fare il “bravo comunicatore”, il cui compito è dare a una saponetta, a una birra, o a una compagnia telefonica tratti di personalità unici e distintivi. Una grande occasione persa: quando mai ci ribeccheranno stravaccati a milionate davanti all’elettrodomestico?

Con buona pace dell’agenzia che ha commissionato la ricerca, la pubblicità non ha sempre regalato al consumatore “un momento di svago”. Per scarsa fiducia in sé stessa è una pubblicità bambina; tratta l’interlocutore con la sufficienza che gli adulti irrisolti hanno nei confronti dei bambini; si rivolge al consumatore in modo assertivo con un discorso (una narrazione) povera e infarcita di banalità e luoghi. Teme di non essere compresa perché ha una scarsa opinione di sé; e non stimandosi, attiva il vecchio circuito nevrotico del masochista che non può apprezzare… chi è tanto sciocco da apprezzarlo. Poiché valgo poco – è il pensiero inconscio della pubblicità bambina – se mi desideri significa che vali ancor meno di me. Un dialogo senza speranza alla Fratelli De Rege. Poi, come nelle migliori storie, capita che un player come Ikea, non esattamente un marchio di nicchia per radical-chic, abbia l’intelligenza di raccontare la “famiglia” per quello che è nella realtà: un magnifico mischione etero e omo sessuale, plurietnico e pluri-confessionale, colorato da ogni grado di sfumature, plurilingue come i quartieri più vivaci delle nostre città. E di colpo quello che pareva impossibile passa in prime-time sotto gli occhi tutti.

Non ho la pretesa che la pubblicità “faccia cultura”. È compito dell’arte, della letteratura, del buon giornalismo creare cultura. Mi aspetto però che la pubblicità sia il megafono dei molti modi di interpretare la vita che la cultura crea. E che lo faccia mentre vende (perché questo è il suo onestissimo mestiere) il prodotto che la sussiste in modo divertente e sdrammatizzante. La carta igienica X potrebbe magari diventare platonica per contrapporsi alla concorrente Y, dichiaratamente aristotelica. Due visioni del mondo raffinate e contrapposte riassunte dall’analoga pratica quotidiana. Potremo così comprare la spuma al Tamarindo, bevanda gradevole e dissetante, anche per il solo piacere di premiare uno spot che ci fa ridere. E ridendo, pensare.

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