La scelta di Elena

By on Ott 5, 2016 in Letteratura

Del caso Ferrante, l’ormai stucchevole storia della scrittrice misteriosa, molto si è parlato e temo ancora per molto si parlerà. Per quel che mi riguarda mi basta e avanza il commento di Michele Serra, al solito il più intelligente del bigoncio.

Quel che invece continua ad interessarmi, e per fortuna non a me solo, è la radice. Ovvero il rapporto con la scrittura. La molla che spinge una persona (in molti casi addirittura la costringe) a compiere l’esercizio di misurarsi con la letteratura, mestiere tra i più complessi, difficili e frustranti. Escludiamo ovviamente la notorietà nel caso della Ferrante e pure il denaro che si presume di guadagnare: bastano e avanzano le dita di una mano per contare chi in Italia campa di sola letteratura.

Quella di Elena Ferrante (per rispetto della sua scelta insisto a chiamarla così) è una vocazione totale, un bisogno, forse anche una (nobile) nevrosi. Come quella di Pessoa, lo scrittore che per tutta la vita non fece altro che produrre testi inventandosi decine di eteronimi. Come quella di Proust, che anche sul letto di morte continuava a di limare, variare, correggere.

Così mi piace citare l’avventura di un amico che, varcata la soglia della mezza età, sente il bisogno di misurarsi con la scrittura. Sceglie la strada, irta e tormentatissima, del racconto (ma chi è quel matto che dopo Cechov ci prova?). Lavora nel caldo d’agosto in città, raggiunge il risultato che lo soddisfa e trova persino un editore.

L’amico non vive in una tenuta in Toscana e non campa di rendita. Come la più parte di noi combatte la sua brava battaglia quotidiana per la civile sopravvivenza. Perché ne abbia sentito il bisogno, perché ci abbia messo nome e faccia, è la domanda, il vero irrisolvibile mistero. Tutto il resto è cronaca, come il lavoro del giornalista investigativo che ha sgamato Elena Ferrante; ma la cronaca si sa, giunti a sera serve giusto per incartare il pesce.

(Vittorio Pentimalli, “L’amore borghese”. L’Erudita editore)