Le vittime non sono mai divertenti

By on Giu 15, 2022 in Letteratura

Sto leggendo “Stalingrado” di Vasilij Semënovič Grossman. Pubblicato solo pochi mesi fa da Adelphi, è stato scritto prima di “Vita e destino” uscito in Italia nel 1984. Insieme a “Tutto scorre” fa parte di una trilogia che a me come a molti piace chiamare la “Guerra e pace” del Novecento. La seconda e terza parte della trilogia lette prima della prima ha causato qualche difficoltà a più di un lettore; ricordo che nelle prime ottanta, cento pagine di “Vita e destino” non era semplice raccapezzarsi tra le decine di personaggi e i loro chilometrici nomi, patronimici, diminutivi e soprannomi tipici della lingua russa e della scrittura di Grossman.

Ma non è di “Stalingrado” che vi voglio parlare. Sono giunto solo a pagina 212 delle 884 che compongono l’edizione Adelphi, elenco dei personaggi compreso. Purtroppo, temo di dover condividere l’opinione di Francesco Cataluccio, insieme a Wlodek Goldkorn il mio riferimento sulla letteratura dell’Est: un libro importante “Stalingrado”, ma non il capolavoro assoluto che è “Vita e destino”. Riguardo alle ragioni di questa opinione ne riparlerò a lettura conclusa.

E’ di “L’inferno di Treblinka” (Adelphi, 7 euro) che voglio parlare, un volumetto scritto da Grossman nel ’44. Qui e da qualche altra parte avevo giurato che non avrei mai più letto nulla sulla Shoah. Per mia igiene mentale e per la tranquillità dei miei sonni. Ero in buona fede quando lo scrissi e lo penso ancora vivamente. Purtroppo non è possibile escludere la Shoah da qualsiasi (sottolineo: qualsiasi) ragionamento che abbia a che fare con il Novecento, il secolo lunghissimo – mi perdoni l’amato Hobsbawm – che non si decide a concludersi e continua a proiettare la sua ombra mortifera. Come è possibile che il massimo dell’abiezione, della disumanità, della bestialità organizzata dalla scienza e dalla tecnica del massacro sia potuta accadere in quella che era (che pareva essere) la nazione più progredita della terra – la patria della filosofia, della fisica, della musica, della filologia – è il quesito che si pone Grossman nelle 79 spaventose pagine di quello che è a tutti gli effetti il “primo reportage” dei campi. Quesito a cui neppure lui riesce a dare risposta.

Non sono uno specialista della Shoah (non sono uno specialista in niente). Tuttavia ho letto quello che ho potuto cercando di assolvere al meglio il mio mestiere di lettore. Su Treblinka credevo di sapere qualcosa. Invece ho scoperto che sapevo niente. Non sapevo che a Treblinka, contrariamente ad altri campi di sterminio “dopo qualche giorno di lavoro finivano tutti quanti nelle camere a gas”. Giorni, non settimane o mesi. Non sapevo di Himmler. Dopo la sconfitta dei nazisti a Stalingrado volò a Treblinka per ordinare la cancellazione delle prove con il fuoco. Non sapevo dell’inganno della finta stazione. Non avevo neppure idea della contabilità dei morti: 3 milioni secondo le stime più prudenti. Tralascio il racconto delle crudeltà sistematiche e anche di quelle partorite dalla creatività criminale delle SS. Le conosciamo sino alla nausea da “L’istruttoria” di Peter Weiss in avanti.

Leggere “L’inferno di Treblinka” dopo le altre testimonianze sulla Shoah ha un effetto straniante. A parte i miei incubi notturni che riguardano solo me e il mio inconscio malandato, leggerlo “dopo” è l’ennesima conferma della legge di Borges secondo la quale alcuni libri hanno la forza, la potenza più che la forza, di mutare il senso di quello che abbiamo letto prima. Ma non è neppure questo ciò che conta. E non conta neppure il fatto che la scrittura di Grossman rasenti la perfezione e ricordi un altro straordinario reportage – “L’armata a cavallo” di Isaac Babel – scritto da un altro ebreo russo di genio, un ucraino odessita innamorato della rivoluzione, un’altra vittima di Stalin e dello stalinismo, il sistema di selezione intellettuale a cui Grossman riuscì (miracolosamente) a sopravvivere.

Grossman come Babel nasce giornalista. Il suo mestiere è informare. Come alcune rare volte accade, il dio del giornalismo illumina il cronista, l’inviato, l’opinionista e gli consente di scalare di grado, categoria, specie e finalmente genere. A gente come Hemingway, o dalle nostre parti come Buzzati, riesce il salto quantico e avviene il miracolo. Dico questo per un motivo semplice sino alla banalità. La storia, contrariamente a ciò che ritengono quegli imbecilli dei “laureati all’università della vita”, non la scrivono i vincitori. La scrivono gli storici.

Gli storici sono persone precise, rigorose, accurate. Che di norma non scrivono per farsi leggere bensì per documentare e stabilire, una volta per tutte e poi di nuovo ancora e ancora, che Cesare non morì di rosolia; che a Trafalgar non vinse la flotta napoleonica; che la Stele di Rosetta non racchiude una selezione di ricette mesopotamiche per cucinare l’ippopotamo con la panna. Che la finalità di Auschwitz (e di tutti gli altri 44.000 campi di sterminio creati dal 1933 al 1945 dalla Germania Nazista e dai suoi alleati) era la distruzione sistematica di ebrei, zingari, omosessuali, oppositori politici, prigionieri di guerra.

C’è una grande differenza tra scrivere per la storia e scrivere per la memoria. La prima scrittura documenta e sancisce con l’autorevolezza della scienza e del metodo scientifico (sì, gli storici di professione appartengono al novero degli scienziati). Scrivere per la memoria significa invece scrivere per l’emozione e per l’anima. Significa testimoniare affinché ciò che è stato non cada nell’oblio dell’indifferenza: il timore di Grossman e Primo Levi ieri, della signora Segre oggi.

Grossman scrive il suo reportage per documentare. Scrive perché è un giornalista. Scrive perché non può fare altro. Scrive perché la sua vita è la scrittura e perché sa che gridare “attenti, è accaduto!” non basta ad impedire che accada nuovamente. Treblinka accade ancora: ieri nella vicinissima Jugoslavia; oggi nella poco più lontana Ucraina. Treblinka accadrà ogni volta che smetteremo di chiederci chi sia la vittima e chi l’aguzzino, chi l’aggressore e chi l’aggredito rifugiandoci nella comoda coltre dell’indifferenza, della noia e del fastidio. L’uomo contemporaneo detesta le tragedie e le vittime non sono mai divertenti.

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