Sarebbe bello se (e sottolineo il se)

By on Nov 4, 2020 in Contemporaneità

Nel cuore della notte mi whatsappano amici interisti delusi da Madrid. Si aspettano una compensazione, il regalo annunciato e lungamente atteso è in arrivo dall’America. Fanno parte della vasta compagine degli anti-trumpiani, categoria kantiana per eccellenza che comprende persone non necessariamente intrippate dalla politica. Trump è un fastidio non si sa se più estetico o morale. Un incidente di percorso in una storia che nonostante tutto ci piace immaginare libera e bella, “America the beautiful”, terra di speranza e di libertà.

Lascio ad altri, all’esercito di analisti e commentatori che scrivono fior di saggi e articolesse sull’America e non ci azzeccano mai una mazza, il compito di spiegare come e perché i sondaggisti USA abbiano cannato pure questa volta; come e perché i dirigenti del partito democratico non conoscano il loro paese; come e perché le élite culturali che animano i Think tank più raffinati del pianeta non siano in grado di riconoscere una tendenza che a noi pur digiuni di cose americane appare grande come la Morte Nera di Guerre Stellari; il fenomeno che spinge quello che resta della così detta “classe operaia” a dare il proprio sostegno a un palazzinaro miliardario in odore di fallimento e di frode al fisco.

Inventori del totalitarismo che vanta il maggior numero di imitazioni (Hitler, Franco Salazar, per citare i più noti) abbiamo confermato con il ventennio berlusconiano prima e con il salvinismo sovranista poi, di essere il laboratorio politico in grado di anticipare il futuro del mondo. La classe operaia che compatta votava per il più grande partito comunista d’Occidente, pronta a scioperi che visti con gli occhi di oggi apparirebbero come i più incredibili esempi di solidarietà internazionalista, si è sciolta come la neve al bordo delle strade; solidarietà, accoglienza, tutela della diversità, sostegno alle lotte di liberazione dei popoli, fiducia in un futuro di eguaglianza e giustizia sociale… valori cementati da un indiscusso (e un tempo apparentemente indiscutibile) sentimento antifascista.

Quella classe operaia che votava senza se e senza ma i candidati scelti da una ristretta segreteria, quella classe operaia che scioperava per la scala mobile e occupava la Fiat, non esiste più da un pezzo. Scomposta e atomizzata dalla nuova divisione del lavoro mondiale, ha perduto quella supposta “coscienza di classe” che con buona probabilità è esistita solo nelle menti dei più raffinati pensatori europei. Anche l’antifascismo e la memoria della bestialità e della barbarie hanno seguito le sorti delle diluizioni omeopatiche; ne resta forse una parte su un milione, sino a quando (per quanto ancora?) reggerà il ricordo della nonna staffetta partigiana, dello zio deportato, del padre massacrato dalla rappresaglia.

A noi che, nonostante tutto, continuiamo a voler bene all’America della libertà, dell’avventura e dell’ innovazione, questo immenso e scombinato paesone ricorda il compagno di classe grande e grosso e un po’ tardo di comprendonio che abbiamo irriso e sfottuto un’infinità di volte per la sua prepotente goffaggine; il gigante tontolone che pure, nonostante tutto, ci ha fatto scudo contro i bulli delle classi più grandi, prepotenti quanto lui ma quanto più spaventosamente minacciosi; davvero, poteva finire molto, ma molto male nel ’39 e poi nel ’45: potevamo finire preda dell’imbianchino con i baffetti o, più facilmente, del georgiano con i baffoni… Abbiamo avuto “more ass than soul” come non dicono quelli che sanno l’inglese nel nascere nell’angoletto se non giusto almeno meno peggio.

Sarebbe bello se gli intellettuali americani, quelli che evidentemente leggono solo il New York Times, il Washington Post, The Nation e Dissent, sentissero nascere in sé il desiderio di scoprire il paese in cui vivono e nel quale milioni e milioni e milioni di loro concittadini nonostante tutto (o forse: in funzione di tutto) dànno il loro voto a the Donald. Sarebbe bello se i dirigenti del partito democratico americano venissero qui da noi, nel laboratorio politico più originale del Novecento, a studiare il nostro sistema di relazioni, alleanze, scambi e trasformismi. E sarebbe ancora più bello se, una volta tornati nel loro grande e grosso e immenso paese, evitassero di fare gli errori che fanno la fortuna di Donald e condannano noi alla palude dell’immobilismo.

 

rl