Storia di Marieke

By on Ott 31, 2019 in Contemporaneità

Il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita e l’inevitabilità della morte

(Italo Calvino, Se una notte d’inverno un viaggiatore)

 Il racconto di Marieke Vervoort, campionessa paraolimpica belga, è un racconto compiuto. Affetta dall’età di 14 anni da una malattia muscolare degenerativa che le paralizza le gambe e le dà dolore costante, aveva deciso da tempo cosa fosse meglio per sé. “Mi sto ancora godendo ogni piccolo momento. Quando avrò più giorni brutti che buoni, allora ho già i miei documenti di eutanasia, ma il tempo non è ancora arrivato” aveva dichiarato. Su questo ha insistito parecchio: la sua sicurezza, la serenità con cui affrontava la vita, stava in quelle carte, le chiavi che avrebbero aperto la porta della libertà.

Il Belgio è un paese che da Marcinelle in poi noi italiani abbiamo conosciuto bene. Divisi da sempre in due comunità che si guardano in cagnesco, incapaci di darsi un governo in carica con pieni poteri (record mondiale: 540 giorni consecutivi) soggetti da sempre allo sfottò dei francesi (nelle barzellette sono l’equivalente dei Carabinieri) zitti zitti i belgi sono riusciti a darsi una legge sull’eutanasia. Una legge di liberazione, più che di libertà, come direbbe Marieke, per chi non ce la fa più e vuole andarsene con il decoro che spetta agli umani.

Per dirla con Calvino, non so quale sia il senso ultimo di questa storia. In questi tempi bui in cui l’inarrestabile sciocchezzaio rende nebulosi anche concetti semplici come “destra” e “sinistra”, una volta facili da distinguere come il pane e il vino, potremmo concludere che “sinistra” è tutto ciò che esalta le scelte di libertà che non provocano danno alla collettività, e “destra” tutto il resto. Chi ne sa di più sostiene che la morte faccia parte della vita; peccato che la vita faccia di tutto per non occuparsene.

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