Tu chiamale se vuoi

By on Mag 30, 2019 in Comunicazione

La scoperta dell’acqua calda. Come spesso mi accade, anche col “Game of Thrones” sono arrivato tardi. Totalmente immune da spoiler (forse che conoscere anzitempo la sorte di Madame Bovary nuoce alla lettura?) cerco di mettermi in pari prima dello spegnimento finale seguendo una media di circa trequarti di puntata al giorno saltandone tre, debitamente aggiornato sui fatti salienti (morti, fughe riuscite vs. riacchiappi, matrimoni, tradimenti, duelli, torture, crescita dei draghi…). Il guaio, come riconoscono molti suiveur, sono i dialoghi, banali e tautologici e l’andamento delle scene di collegamento, soporifere peggio di una sinfonia di Bruckner a farmi rimpiangere i perfetti tempi narrativi delle storie del maghetto, ennesima dimostrazione dell’intelligenza della Rowling anche nella scelta dei registi.

I più scaltri, quelli avveduti, sostengono che la letargia dei dialoghi nasca dalla difficoltà di comprensione dello spettatore americano medio, quello cresciuto a suon di campagne P&G, quelle in cui due cretini affrontano un problema fondamentale della vita, tipo le macchie sulla tovaglia, e quello un po’ meno cretino (ad esempio la nonna) risolve il problema estraendo dal nulla il prodotto risolutivo – fermo immagine: big visual, ripresa dell’azione – quello che lava senza rovinare i tessuti.

(“Negli Stati Uniti c’è un culto dell’ignoranza, e c’è sempre stato. Le sollecitazioni dell’anti-intellettualismo sono un filo rosso che si snoda attraverso la nostra vita politica e culturale, nutrito dalla falsa convinzione che democrazia significhi che “la mia ignoranza vale quanto la tua conoscenza”. Isaac Asimov citato da Tom Nichols in “La conoscenza e i suoi limiti”).

Eppure non si può non seguire GOT. Non è necessario vedere tutti gli episodi. Bastano anche due terzi di puntata ogni tre. Serve a comprendere cosa incanta, incatena ed emoziona milioni (miliardi?) di persone. Anche quelle, soprattutto quelle, che nulla sanno del Riccardo III di Shakespeare, della guerra delle due Rose, e neppure di quella dei Trent’anni che dopo aver sconvolto l’Europa decretò la fine della religione quale motivazione (quale scusa) per sventrare, stuprare, incendiare e aprire crani come fossero cocomeri maturi; lo spettatore che magari si è pure letto tutti i libri dell’autore della serie, quel tal George R. R. Martin, appartenente al Science Fiction and Fantasy Writers of America, le cui opere – mastodonti da 750 pagine e pussa – sono state tradotte in tedesco, francese, italiano, spagnolo, svedese, norvegese, olandese, giapponese, portoghese, croato, russo, polacco, rumeno, ungherese, finlandese e naturalmente esperanto. Uno spettatore-lettore (come direbbe Baudelaire “Tu le connais, lecteur, ce monstre délicat, hypocrite lecteur, mon semblable, mon frère!) che molto probabilmente non legge più né giornali né settimanali, non si interessa (non si interessa più) di politica e forse non si è neppure recato alle urne domenica scorsa; uno spettatore-lettore che, al pari dei milioni degli spettatori-lettori della saga del maghetto, ha fame di emozioni. Quelle che solo le storie sanno donare.

C’è l’Europa medievale in GOT, quella dei mostri di pietra arrampicati sulle guglie di Notre-Dame, l’Europa delle foreste cupe e minacciose dove un arciere (un soldato di Robin?) attende il transito dell’incauto viandante; l’Europa delle città contrapposte ai castelli e all’infinita brughiera; l’Europa dei nobili, dei mendicanti e dei soldati di ventura che a partire dal XIII secolo cominciarono a diffondersi in Europa e nei Comuni; le truppe mercenarie da cui Machiavelli metteva in guardia i governanti che potevano abbandonare improvvisamente il vecchio per il nuovo padrone, decidendo così le sorti di una guerra e di intere popolazioni. GOT è pieno zeppo di tradimenti e voltafaccia improvvisi.

C’è la fiaba in GOT e c’è la tecnica. O meglio: le tecniche. Come quella mozzafiato inventata alla fine dell’Ottocento chiamata “cliffhanger” (che letteralmente significa “appeso a una scogliera”) usata per trattenere i lettori di romanzi lunghi novecento pagine, pubblicati a puntate dai giornali in archi narrativi lunghi anche tre mesi. Nulla di nuovo sotto il sole, insomma.

Trucchi del mestiere inventati da geni della narrazione come Alexander Dumas che consistevano ad esempio nello “sbiancare” il testo attraverso numerosi paragrafi e capitoli brevi, – l’equivalente dei dialoghi soporiferi che in GOT allungano la broda – che avrebbero riempito rapidamente le pagine e protratto le conversazioni. Donald Sassoon nel suo imperdibile “La cultura degli Europei” ci informa che negli anni Quaranta l’astuto Dumas “si impegnò a scrivere per il “Siècle” centomila righe l’anno a un franco e mezzo a riga, il che significa che poteva arrivare a guadagnare più di centocinquantamila franchi annui: una vera fortuna”. Per l’appunto, nulla di nuovo sotto il sole.

GOT risponde al bisogno che solo la narrazione può esaudire: raccontami una storia. Quella dell’uomo che parte per la guerra e sta via vent’anni; quella di chi combatte nel fango insieme a pochi compagni che nel sacrificio di sangue diverranno band of brother. Le storie di draghi, di maghi, di dame, di cavalieri, armi ed amori. Italo Calvino in “Se una notte d’inverno un viaggiatore” ci ricorda come “il senso ultimo a cui rimandano tutti i racconti ha due facce: la continuità della vita e l’inevitabilità della morte”.  Anche il Gioco dei Troni, nonostante ingenuità e goffaggini, lentezze e illogicità assortite, non si sottrae a questa legge bronzea. Inevitabile pensare che il giorno in cui anche la politica intesa nella sua accezione originaria e più nobile: scienza del governo della polis, imparasse a trasformare la narrazione in epica delle emozioni e le emozioni in fatti, anche i troni contemporanei sarebbero meno insanguinati e feroci.

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