Ottimo suggerimento quello di Wlodek Goldkorn. Qualche settimana fa dalle pagine virtuali di HuffPost invitava la lettura in parallelo di “Antisemita” (Valentina Pisanty, Bompiani) e “Il nuovo antisemitismo” (Jan Améry, Bollati). Vado subito al succo. La Pisanty postula che l’equivalenza antisemita = antisionista sia una forzatura, un’invenzione ad usum delphini dell’estrema destra israeliana; viceversa i saggi di Améry scritti tra il 1969 e il 1978 testimoniano un fenomeno che trascende le vicende dell’attuale governo israeliano.
Non sono uno storico né tantomeno uno studioso di storia dell’ebraismo. Tuttavia non credo sia necessario essere degli specialisti per comprendere che tra ebraismo e sionismo esiste un legame indiscutibile e per moltissimi ebrei indissolubile. Certo, come fa notare Pisanty, sono molti i combattenti per la dignità del popolo ebraico dichiaratamente anti-sionisti: lo fu il Bund (l’Unione Generale dei Lavoratori Ebrei di Lituania, Polonia e Russia) come anche Marek Edelman, il vicecomandante dell’insurrezione nel ghetto di Varsavia, ma quello della Pisanty mi pare un uso capzioso. È un’opposizione al sionismo di natura schiettamente politica: lottavano per conquistare dignità e libertà in quello che legittimamente consideravano il loro paese e la loro casa.
Quello che so riguardo al sionismo è ciò che con un po’ di buona volontà può conoscere chiunque: un movimento sorto alla fine del XIX secolo dai fermenti del dell’illuminismo ebraico e della reazione all’antisemitismo; non è forse inutile ricordare che le manifestazioni di antisemitismo andavano dai pogrom – specialità dell’impero russo – all’ostilità più o meno esplicita nelle pur civilissime Francia, Germania, Austria. A proposito del clima che si respirava a Vienna, capitale culturale dell’Europa di fine secolo, così scrive Sigmund Freud “Anzitutto mi feriva l’idea che per il fatto di essere ebreo dovessi sentirmi inferiore e straniero rispetto agli altri”.
Cos’è quindi il sionismo? Gadi Luzzatto Voghera nel suo “Sugli ebrei” lo definisce “un movimento i cui caratteri furono molto simili in origine a quelli del Risorgimento italiano”. “Un movimento di rinascita nazionale” prosegue Luzzatto Voghera “con l’obiettivo di realizzare una nuova forma -Stato in cui gli ebrei stessi potessero rifugiarsi e organizzare la loro vita sociale, economica e culturale, compresa quella religiosa, senza condizionamenti esterni”.
Nel 1948 nasce lo Stato d’Israele la cui sovranità viene subito riconosciuta dagli Stati Uniti e dall’Unione Sovietica. Fine della storia, ostilità dei paesi arabi a parte? Quando una storia finisce (o sembra finire) ne inizia immediatamente un’altra; sembra nuova, ma nuova non è (le storie della Storia vivono nella lunga durata). Terminata la guerra calda con la sconfitta dei nazifascismi inizia quella fredda. E avviene l’ennesimo miracolo semantico che Valentina Pisanty non mi pare abbia colto: per il regime staliniano il lemma “sionismo” da buono diventa cattivo. Uno slittamento di significato che immediatamente trasforma un “legittimo movimento di autodeterminazione nazionale” come veniva considerato a Mosca nel ’48, in strumento delle lobby finanziarie dell’imperialismo capitalista. Israele = agente del neocolonialismo. Sembra di essere tornati al complotto demo-pluto-giudaico-massonico di mussoliniana memoria, ma come è noto lo stalinismo è maestro nel riciclare qualsiasi schifezza in caso di necessità.
Torniamo a Jan Améry. Di lui avevo letto “Intellettuale ad Auschwitz”, memoria persino più terribile di “Se questo è un uomo”. I saggi raccolti ne “Il nuovo antisemitismo” di doloroso hanno solo l’ineluttabilità: l’odio verso l’ebreo è un eterno ritorno senza speranza e senza fine; del resto è nel destino di Améry raccontare l’abisso. Questa volta lo sconvolgimento nasce dal fatto che l’antisemita non è il nemico di sempre – il cattolico reazionario, il razzista, il nazifascista – bensì quello che appariva come il più naturale degli alleati, il campo progressista, al quale lo stesso Améry appartiene.
È il caso di dire subito che ne “Il nuovo antisemitismo” Améry parla alla mia stralunata generazione, quella della “nuova sinistra” allevata dalla vecchia nell’odio per Israele. Avevo vent’anni e, oltre a confermare l’opinione di Paul Nizan, posso assicurarvi che come la più parte dei miei coetanei ero straordinariamente stupido. Ma al di là dell’imbecillità che ci ha portato a confondere la rivoluzione comunista con una più banale incazzatura generazionale verso genitori e famiglia, ci sono responsabilità politiche su cui si è elegantemente sorvolato. Inutile girarci attorno: l’odio di “sinistra” per lo Stato ebraico nasce nella stessa greppia in cui in quegli anni mangiava il terrorismo rosso.
Améry invece non fa sconti. Nel saggio intitolato “La sinistra e il “sionismo” afferma che “la sinistra vede Israele come l’aggressore e l’oppressore, lo scudiero della sopraffazione occidentale, nella fattispecie dell’imperialismo americano”. Sembra scritto oggi ma è del 1969. Ne “L’antisemitismo rispettabile” affronta il tema dell’esistenza di Israele: “nel conflitto in Medio Oriente c’è un diritto contrapposto a un altro diritto, una pretesa contrapposta a un’altra pretesa… non si tratta però di una minaccia di eguale portata… la realtà è che la nazione araba…è fermamente decisa a voler distruggere lo Stato d’Israele, così come il passato avrebbe voluto fare il signor Goring con le città inglesi… ed è altrettanto innegabile che oggi non ci sia nessuno al mondo che suonerebbe le campane a stormo se fosse imminente un nuovo genocidio”. È del 1976. Non mi pare abbia perduto attualità.
Dal suggerimento di Goldkorn, dalla lettura parallela, si esce con un po’ di stordimento. A ottant’anni dalla liberazione di Auschwitz chiedersi se l’antisionismo sia o meno una forma di antisemitismo fa cadere le braccia. Jean Améry divenuto ebreo come Primo Levi grazie alle leggi razziali, l’intellettuale europeo che non parlava l’ebraico, non frequentava la sinagoga e trovava insopportabile anche il clima di Israele, viveva come milioni di altri ebrei un rapporto strettissimo con lo Stato ebraico che nulla aveva a che fare con l’approvazione incondizionata dei governi israeliani. Améry è legato in modo indissolubile a quella terra perché come milioni di altri ebrei nel mondo sa che “se la sua vita sarà in pericolo c’è un posto pronto ad accoglierlo… e finché Israele esisterà non potrà essere gettato in pasto all’orrore con il tacito consenso di spettatori più o meno consapevoli”.
Così mentre cerchiamo di abituarci all’idea che l’ebreo morto sia infinitamente più amato di quello vivo, un’altra sorpresa ci attende: Il così detto “campo progressista”, legittimo nipote dell’Illuminismo e del pensiero sociale ottocentesco, odia a tal punto quell’Occidente in cui campa da preferire alla pur imperfettissima democrazia israeliana il verminaio dei suoi feroci vicini. Davvero, nulla è peggio dell’odio di sé.