Perché i poveri dànno il loro voto ai miliardari? E, in senso più allargato, quale motivo spinge gli individui a sostenere governi reazionari se non dichiaratamente liberticidi? A un esame di scienze della politica sarebbero considerate domande difficili; eppure nei giorni scorsi ho letto opinioni sensate e condivisibili, tra l’altro formulate senza neppur scomodare lo spirito del tempo, quella cosa che viene tirata in ballo quando non si sa che dire. Ci rifletto e mi rendo conto che le domande presuppongono di avere idee chiare sulla differenza che corre tra destra e sinistra; questione su cui mi interrogo sin dall’adolescenza, consapevole che “sinistra” è assai più di “destra” un concetto sfuggente che pretende di essere interpretato ad ogni svolta della storia. Giusto per fare un esempio di scuola, se promuovere l’unità d’Italia ai tempi di Cavour significava assumere una postura progressiva, solo pochi decenni dopo il pur sacrosanto amor di patria mutava in nazionalismo coloniale e bellicista.
Certo, anche “destra” è un concetto che va maneggiato con cautela. I conservatori di Churchill, i gollisti di De Gaulle, i democristiani di De Gasperi, sono qualcosa di infinitamente diverso dell’attuale governo ungherese; e i governi formati da partiti di destra o centrodestra alla guida di 11 Stati membri su 27 dell’Unione Europea (governano una popolazione di quasi 141 milioni di abitanti) non sono nemmeno lontanamente paragonabili alla follia dell’amministrazione Trump. Indubbiamente “destra” non significa necessariamente reazione; tuttavia a una persona della mia età la parola istintivamente fa venire in mente i Colonelli in Grecia, Tambroni in Italia o Salazar in Portogallo, invece di “conservazione” che pure è uno dei significati storici del termine.
Il paradosso che ho appreso nel corso della vita è la portata trasversale della parola “conservatore”. Quante persone che pure ritengono di appartenere a buon diritto al mondo della sinistra sono – anche e contemporaneamente – conservatori sino al midollo in tema di enogastronomia, arte della conversazione, letteratura, utilizzo degli strumenti nella musica antica, tutela del paesaggio, rovescio a una mano, motori endotermici pluricilindrici, eterosessualità monogamica, stili di vita? E quindi, nuovamente, cosa sono “destra” e “sinistra” oggi?
Chiediamo aiuto ai classici. Norberto Bobbio nel 1994 affermava che “La distinzione tra la destra e la sinistra, per la quale l’ideale dell’eguaglianza è sempre stato la stella polare, è nettissima. Basta spostare lo sguardo alla questione sociale internazionale, per rendersi conto che la sinistra non solo non ha compiuto il proprio cammino ma lo ha appena cominciato”. Sono passati trent’anni e a quanto pare la sinistra non ha compiuto progressi nel cammino indicato da Bobbio. Cosa dunque è andato storto? Il commento di Wlodek Goldkorn sulle elezioni polacche che hanno visto prevalere il candidato tradizionalista ostile all’Europa può aiutarci a comprendere: “Sosteneva Bauman in Retrotopia l’ultimo libro e forse il suo testamento, che quando viene a mancare la prospettiva di un futuro ci si rivolge al passato, alla narrazione di un’identità che rischia di essere distrutta dalle forze ostili, da chi ordisce complotti… in un mondo terribilmente complesso per cui stentiamo a cogliere i nessi fra causa ed effetto la retorica populista fornisce una spiegazione semplice dei fenomeni che riguardano il cambio d’epoca, attingendo invece al lessico del passato, perché il passato è rassicurante, è una zona di conforto: lo conosciamo”.
Dunque, non solo il mondo è terribilmente complesso ma è anche abbandonato a sé stesso. Chi un tempo si era assunto il compito di spiegarlo oggi si perde nel perseguire obiettivi infantili e fasulli, come l’imbecille sul Titanic impegnato a salvarsi la piega dello smoking. Susan Neiman ha invece le idee chiare. “La sinistra non è woke. Un antimanifesto” (Utet) è un pamphlet di quelli che non fanno sconti alle mode e alle conventicole. Innanzitutto una definizione di woke. Scrive la Neiman: “Woke è un termine che nasce da un interesse per gli emarginati, ma finisce per costringerli tutti paradossalmente in un prisma di marginalizzazione. L’idea di intersezionalità avrebbe potuto sottolineare che ognuno di noi ha più di un’identità; invece ha portato a focalizzarsi su quelle parti di identità più emarginate, moltiplicando una miriade di traumi”.
Non so se sia stata – come allude lo strillo furbetto in copertina – “l’ideologia woke a spalancare la strada alla destra più reazionaria”. Di certo le responsabilità non sono mai delle “vaste masse popolari” ma sempre e solo delle élite. Con buona pace di Brecht – “Cesare sconfisse i Galli. Non aveva con sé nemmeno un cuoco?” – i cuochi non hanno mai sconfitto nessuno, se non a volte la buona cucina. La Neiman le enumera (le responsabilità) analizzando i tre fronti sui quali la sinistra ha ceduto di schianto all’ideologia woke: universalismo, giustizia potere, progresso e rovina.
Un’umanità “umiliata e offesa” si rifugia nel tribalismo, ed è il segnale della catastrofe. Una volta abbandonato l’universalismo, marchio di fabbrica storico della sinistra, gli argini cedono di schianto. Lo storico B. Zachariah commenta: “Una volta, essenzializzare le persone era considerato offensivo, addirittura stupido, antiliberale, antiprogressista, ma adesso è così solo quando a farlo sono altri. Essenzializzare e stereotipare sé stessi non solo è permesso, ma è considerato un atto di emancipazione”. Chiosa la Neiman: “Se le richieste delle minoranze non vengono viste come diritti umani ma come diritti di gruppi specifici, cosa impedisce a una maggioranza di insistere sulle proprie?”
Il secondo fronte riguarda il rapporto tra giustizia e potere. La critica della Neiman al post-modernismo di scuola francese giunge sino a definire reazionario sic et simpliciter il nichilismo amorale di Foucault. Il teorico dell’onnipresenza del potere nega ogni speranza di miglioramento della condizione umana: nessun cambiamento, nessun progresso è possibile. E perché mai, prosegue l’autrice, gli intellettuali di sinistra hanno subito il fascino di figure come Heidegger e Schmitt, antisemiti doc neppure nel dopoguerra manifestarono un dubbio o un pentimento sui loro trascorsi nazisti? (Ancora nei diari postbellici Schmitt afferma: “gli ebrei rimangono sempre ebrei… per la precisione, il vero nemico è l’ebreo assimilato”).
Ma è l’abbandono del terzo fronte – capitolo “Progresso e rovina” – che segna il disastro della sinistra. Scrive la Neiman: “La più profonda differenza tra sinistra e destra è in effetti l’idea che un progresso sia possibile. Idea irrintracciabile nel tradizionale pensiero conservatore, che nel migliore dei casi vedeva la storia come statica o circolare, e nel peggiore come un triste, lento declino dopo una mitica età d’oro. Secondo questa visione, un lieve progresso poteva verificarsi, sì, ma un mondo davvero migliore era possibile solo nell’aldilà… Stare a sinistra significa credere che le persone possano collaborare per migliorare in modo significativo le effettive condizioni della propria vita e di quella altrui”. La sinistra contemporanea si vergogna di parlare di progresso. La considera un’idea infantile, un’ingenuità di cui si sorride con sufficienza come si fa con le credenze popolari. Ma, conclude la Neiman, “Se si abbandona la prospettiva del progresso, la politica non diventa altro lotta per il potere”.
Nel rispetto dell’ineffabile logica delle madeleine in queste sere stiamo appunto guardando la serie “Borgen – Potere e Gloria”.