Il gatto di Schrödinger non sta molto bene. La letteratura anche

By on Ott 18, 2023 in Letteratura

Ho incontrato Benjamin Labatut nel più affettuoso dei modi. Me l’hanno portato in dono amici di lunghissimo corso. “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” aveva entusiasmato il loro nipote, ragazzo di talentuosa intelligenza. Si legge in un paio d’ore e sin dalle prime pagine si comprende come Labatut sia un perfetto “autore Adelphi” di quelli che mandavano in sollucchero Roberto Calasso. In Labatut c’è il gusto di Calasso per l’irrazionalismo anti-modernista, la passione per il misterico, e gli immancabili riferimenti alla filosofia orientale. Un libretto di neppure duecento pagine dove il vero si mischia al verosimile, e il verosimile al completamente inventato. Come lo stesso autore dichiara nella postfazione.

Il tema di “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” sono gli sviluppi della scienza novecentesca narrati attraverso le vicende dei suoi massimi interpreti. Ma quale versione delle avventure di Werner Heisenberg sull’Isola di Helgoland è la più vicina alla realtà storica (o se preferite, la meno romanzata)? Quella di Carlo Rovelli, altro autore Adelphi, o quella di Benjamin Labatut? Un editore, due visioni.

Sento già gli amici del Bar Jorge Luis obiettare che è sacrosanta norma artistica costruire narrazioni diverse a partire dallo stesso evento, leggenda o mito. Purtroppo “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” non si occupa di saghe e leggende, bensì delle scoperte scientifiche del secolo scorso. Vicende indagate a fondo dagli storici della scienza, come avverte la bibliografia citata dall’autore. Il quale precisa: “Questa è un’opera di finzione basata su fatti reali. La quantità di finzione va aumentando nel corso del libro… mi sono preso maggiori libertà, cercando di rimanere fedele alle idee scientifiche al centro di ognuno di essi”.

Ecco, credo sia questo il punto: la quantità di finzione. Trattandosi non di Amleto principe di Danimarca, ma delle vicende dei signori Heisenberg, Bohr, Schrödinger, Einstein e de Broglie, la “dose” di finzione adoperata da Benjamin Labatut pare un container di hashish piuttosto che una modica quantità per uso personale.

Al lettore cinico qual sono diventato fa specie scoprire che il genio visionario degli uomini a cui dobbiamo la meccanica quantistica ricevette sostegno da droghe, bevande magiche, stregoni, fantasmi, deliri erotico-mortuari, masturbazioni assortite, febbri e diarree accompagnate da miracolose letture di letteratura vedica. Come potrebbe saggiamente asserire Lucy Van Pelt, all’arte si perdona tutto; tuttavia, forse la spiegazione più semplice riguarda il famoso “posizionamento” (chiedo scusa per l’abominio) ormai indispensabile anche in letteratura. Come riuscire ad épater i lettori del terzo millennio, quelli che al di là di due frasette su Instagram non vanno, narrando la storia della fisica tra gli anni Venti e Trenta, tema arato persino più del Golfo del Tigullio ad agosto? E cosa meglio di sperma, merda, erotismo cadaverico e genio in sfrenata libertà per affascinare un adolescente talentuoso?

Resta una domanda destinata a non avere risposta: perché mai a Roberto Calasso, straordinario erudito e ancor più straordinario editore, la modernità stava così insopportabilmente stretta? Non è certo lui, mancato l’anno scorso, ad aver cambiato il titolo originale in lingua spagnola (“Un verdor terrible”). Ma è inevitabile ritrovare in “Quando abbiamo smesso di capire il mondo” lo scetticismo compiaciuto che, come il diavoletto di Maxwell, attraversa beffardo tutto il catalogo Adelphi.

Tornando all’astuto Labatut, confesso di non capire niente di meccanica quantistica. Ho avuto però la fortuna di godere della conversazione di almeno una mezza dozzina di fisici. Gente che nei laboratori di ricerca di mezzo mondo usa la meccanica quantistica con la stessa perizia con cui noi mortali usiamo lo spazzolino da denti. Non mi sono mai parse persone che hanno rinunciato a capire il mondo.

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