Il personale è politico

By on Gen 4, 2024 in Contemporaneità

Lunedì primo gennaio Rai 3 ha trasmesso il docufilm “Io, noi e Gaber”. Mai amato Gaber. Sapevo però che il film era una cosa ben fatta e con quegli anni – i malefici Settanta – non ho ancora finito di fare i conti. C’è anche un’altra ragione che mi ha indotto a guardarlo, anche questa strettamente personale: “L’eroe che pensa”. In poche pagine, Alfonso Berardinelli riflette su situazioni problematiche quando “intelligenza e potere entrano in contrasto, rivelando la loro reciproca, radicale estraneità”. Non sono tanto le pur densissime pagine su Amleto e sul principe Bolkonskij ad avermi colpito, quanto la riflessione sul rapporto intercorso tra gli intellettuali italiani e il marxismo; in buona sostanza, la loro (la nostra) adesione ad un’idea di comunismo compiuta senza aver fatto i conti con il socialismo realizzato.

Io, noi e Gaber” è utile per chiunque abbia tempo e voglia di ragionare su come il Sessantotto – l’allegra e vitale rivoluzione della cultura e del costume occidentale – si sia rapidamente trasformato in scontro violento prima e in terrore poi (ringrazio chi tra i miei quattro lettori eviterà gentilmente di affermare che il terrore è il naturale approdo di ogni rivoluzione). In tal senso il lavoro di Riccardo Milani inquadra in modo esemplare il percorso artistico e personale di Gaber.

Nel film ci sono tutti, o quasi. C’è la signorile semplicità di Gianni Morandi e l’altezzosa arroganza di Sandro Luporini, il paroliere di Gaber, che autodefinendosi descrive in modo perfetto l’albagia politica di una certa sinistra, tutt’ora convinta di essere “diversa e migliore” (“io comunista, lui un piccolo borghese”, dichiara seduto tra i velluti rossi del suo salotto para-viscontiano). C’è il vaniloquio di Mario Capanna che da quarant’anni racconta la favoletta, sempre la stessa, su quanto formidabili (sic) fossero quegli anni; ci sono gli elogi – non si sa se più prevedibili o più banali – del povero Vincenzo Mollica; ci sono i figli, poveretti pure loro, imprigionati nel mestiere di “figli di”; e ci sono persino i figli dei figli. Poi, per fortuna nostra e sua, c’è anche la lucidità di Michele Serra.

Avevo diciott’anni quando Gaber abbandonò la televisione. Quelli della mia età avevano smesso di guardarla da un pezzo la televisione. Nell’aria c’era l’idea della rivoluzione. Quale, da cosa e da chi, non era molto chiaro. Allora il mondo si divideva in due: quelli di sinistra e quelli che no. In mezzo davvero poca roba, genere non so, non c’ero e se c’ero dormivo. Avevo diciott’anni e, parafrasando quel tale, “non permetterò a nessuno di dire che questa è la più bella età della vita”. Al di là del fatto che molti di noi (la più parte, la totalità?) pensava di ribellarsi al sistema quando in realtà al massimo si ribellava al proprio padre, resta da chiedersi come mai all’alba della stagione delle più consistenti riforme sociali (sanità nazionale, statuto dei lavoratori etc. etc.) furono in molti a provare sovrano disprezzo per lo stile di vita occidentale; per le sue miserie, le sue pochezze, le sue ingiustizie; ma anche il privilegio di vivere al calduccio della comoda e in fin dei conti assai tollerante civiltà liberaldemocratica.

Eravamo innanzitutto anti-amerikani. Guardavamo con timore e un fondo di disprezzo l’Unione Sovietica e le sue tristi colonie mitteleuropee. Anche Cuba aveva smesso di stazionare nella top ten, mentre “Viet-Nam vince perché spara” ci pareva un paradigma più solido del teorema di Archimede. Andava forte (ma sant’iddio, ditemi perché?) la Cina. Ci pareva amicissima e assai più che vicina. Qualcuno di noi era persino convinto che l’ecologia fosse l’ultima cazzata borghese, l’invenzione del capitalismo morente per continuare a fottere i paesi del terzo mondo.

Poi vennero le bombe. Poi qualcun altro “prese le armi” e gli anni del leggero cazzeggio divennero pesanti come il piombo.

Quando ero piccolo Gaber mi era indifferente. L’ho detestato sentendolo cantare “Destra-sinistra”. Un conto sono le mode e, ancor peggio, i modi: l’affettazione, la finzione, le posture, l’apparire. Un altro è negare la distinzione tra innovazione e conservazione, passato e futuro, progresso e reazione. Chiamiamole come vogliamo – Carolina e Luigi, Antonello e Cesira – ma ci saranno sempre una destra e una sinistra. Perché ci saranno sempre ideali, interessi e posizioni diverse e contrapposte. Di una cosa gli sono invece grato: fu lui tra i primi a dare voce ad una verità per lungo tempo tenuta nascosta: il personale è politico.

Postilla

Non cercate “L’eroe che pensa” . Come spesso accade, l’editore si guarda bene dal far lavorare il catalogo: preferisce investire su novità destinate a diventare in poche settimane resi e poi macero. Ma il maledetto 2023 mi ha almeno portato in dono un pusher librario che stana i libri esauriti meglio di un Bracco tedesco.

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