Siegmund Ginzberg ha fatto il giornalista quando i giornali facevano giornalismo e non il copia-incolla dei comunicati stampa. Per l’Unità, giornale di partito che pure non navigava nell’oro, è stato inviato in Europa, Stati Uniti, Cina, India, Giappone, Corea del Nord e del Sud. Insomma, praticamente dappertutto. Ricordo di aver letto le sue corrispondenze da Teheran quando cacciato lo scià Khomeini fece ritorno da trionfatore. Più di un pisquano, l’ineffabile Michel Foucault su tutti, scambiarono il torvo pretone islamico per un paladino della libertà, ma è un’altra storia.
La storia che racconta oggi con “Macellerie. Guerre atroci e paci ambigue” (Feltrinelli) è innanzitutto un esercizio di stile di quelli da mostrare nelle scuole di scrittura. Ginzberg, che tutto ha visto e praticamente tutto ha letto, racconta i grandi crimini del passato alla luce di quelli del presente e viceversa. Massacri, torture, stupri, taglio delle mani e dei piedi, impalamenti, accecamenti, crocefissioni, morte per fame o per sete (eccetera eccetera) compiuti da tutti i popoli dell’antichità, ripetuti con pedissequa ripetitività dai così detti popoli della modernità. Al punto da renderci edotti che non solo così fan tutti, ma così hanno più o meno sempre fatto tutti.
Con una differenza, abissale. Che mente nell’antichità – e diciamo pure sino all’altro ieri – massacri, torture, stupri, taglio delle mani e dei piedi, impalamenti, accecamenti, crocefissioni, morte per fame o per sete, erano ritenute una normalità alla quale adattarsi sia pure maledicendo gli dèi, oggi anche solo la milionesima parte delle sofferenze che per millenni hanno fatto parte della normale condizione umana ci paiono il discrimine che separa la civiltà dalla barbarie. Certo, la violenza permane. Ma finalmente in più di un angolo della terra la sofferenza inflitta con la violenza è ritenuta intollerabile. A qualcuno sembrerà un pannicello caldo, una consolazione da poco; eppure abbiamo dovuto attendere il 10 dicembre 1948 perché fosse proclamato che “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti… sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza. Ad ogni individuo spettano tutti i diritti e tutte le libertà… senza distinzione alcuna, per ragioni di razza, di colore, di sesso, di lingua, di religione, di opinione politica o di altro genere, di origine nazionale o sociale, di ricchezza, di nascita o di altra condizione”.
A redigere la “Dichiarazione universale” fu la Commissione dei Diritti Umani delle Nazioni Unite guidata da Eleanor Roosevelt, la tenace e talentuosa sposa dell’altrettanto tenace e talentuoso Presidente degli Stati Uniti d’America. Certo, altri tempi, altri presidenti, altra volontà politica, con buona pace di chi – abile cazzaro della supremazia ubiquitaria del potere – teorizza che nulla cambia e tutto può solo peggiorare. Quel genio timido e sfortunato che fu Walter Benjamin scrisse non ricordo dove una frase memorabile sul senso della storia: “il continuum è degli oppressori”.