Mimesis

By on Ott 6, 2021 in Letteratura

La letteratura è una malattia. Al punto che taluni provano invidia per chi non ha ancora letto quelli che ritiengono essere capolavori irrinunciabili, “livres de chevet” da avere sempre sottomano. Condizione ritenuta fortunatissima opportunità  per godere del piacere della “prima volta”. (“Pensa che fortuna! Non ha ancora letto Guerra e pace!” etc. etc).

Premesso che le “prime volte” degli esseri umani non sono mai soddisfacenti come le seconde, le terze (per non parlare delle quante e delle successive) in ragione del fatto che sono richiesti avvicinamenti progressivi al piacere ogni qualvolta sono in gioco dinamiche relazionali, quando rileggiamo un’opera d’arte oppure assistiamo alla rappresentazione di un capolavoro che non frequentavamo da tempo, la sorpresa – o meglio: la scoperta – nasce dal constatare quanto siamo cambiati: quanto grandi sino le nuove emozioni e le nuove riflessioni a cui la lettura ci induce; segno che siamo in presenza di una opera d’arte grande se non addirittura grandissima, il cui effetto è infinitamente diverso dalla tenerezza che suscita il riemergere dal fondo in un armadio di un pacco di vecchi “Topolino”, o di uno dei libretti illustrati che ci venivano letti da bambini e che a nostra volta abbiamo letto a figli e nipoti.

Rileggere significa rileggersi. E rileggendo scoprire quanto e come siamo cambiati anche riguardo alla comprensione del testo (“Ma quindi Emma Bovary esprime anche… To’, non ricordavo che le vicende di Anna Karenina riguardassero solo un terzo del romanzo… Caspita, non avevo compreso appieno il ruolo del cugino di Hans Castrop….” ) particolarmente quando si è di fronte a prodotti dell’arte contemporanea, “opere aperte” secondo la definizione di Eco, che permettono se non addirittura impongono il contributo interpretativo del lettore. Nella rilettura si manifesta anche il paradosso di Borges, secondo il quale l’apparire di una grande opera cambia il modo di leggere di quelle che l’hanno preceduta

Quando poi la rilettura riguarda un classico della critica letteraria come “Mimesis” (E. Auerbach, “Mimesis. Il realismo nella letteratura occidentale”, Einaudi) le scoperte si fanno imbarazzanti e la dicono lunga sulla inevitabile superficialità della prima lettura. Il saggio, capolavoro della critica, è un’indagine condotta sul realismo letterario: sui mutevoli modi di interpretazione dei fatti umani nelle letterature europee. Dai testi biblici a Omero; dal Medioevo cristiano al Rinascimento; dal Sei e Settecento al moderno realismo ottocentesco sino ai capolavori del Novecento, l’autore attraverso l’analisi dei livelli di stile dà vita a una storia del realismo che in primo luogo è una lezione su come vada letta un’opera d’arte.

Sono passati quasi cinquant’anni anni dalla prima volta. Allora “Mimesis” era un testo (sia pur molto importante) da portare ad un esame. Riletto oggi con il piacere dell’assoluta inutilità che dovrebbe sempre contraddistinguere la relazione con l’opera d’arte, mi appare essere al contempo un cannocchiale, un passe-partout, un traduttore automatico tipo Google transalator. “Mimesis” costringe a pensare a come venga costruita e come funzioni la “macchina delle idee condivise”, quell’insieme di convenzioni, convincimenti e valori che caratterizzano la contemporaneità, la nostra vita “qui e ora”. Comprensione resa ostica se non del tutto impossibile dal fatto che siamo ad un tempo soggetto e oggetto nell’osservazione della realtà, immersi in un rullo in cui scorrono incessantemente miliardi e miliardi di micro informazioni di cui dobbiamo comunque tentare una sintesi. (Il povero angelo di Benjamin volge il capo all’indietro nonostante sia impetuosamente sospinto in avanti…).

Riflettere sull’imitazione della realtà in Omero, in Dante o in Flaubert, significa aprire una finestra sul mondo delle idee; sul loro pensiero e su quello dominante nella loro epoca. In Dante, ad esempio, il percorso è evidentissimo: uomo del suo tempo – età nella quale niente è comprensibile senza la categoria del divino – e contemporaneamente innovatore come nessun altro nel Medioevo europeo, straordinariamente consapevole oltreché geniale nel mischiare i livelli di stile.

Epilogo
Anche se non ce ne accorgiamo, le idee dominanti hanno un impatto formidabile sulla nostra vita: non è indispensabile andare a Kabul per comprenderlo. “Love Is in the Air” cantava John Paul Young nel 1977, e forse aveva ragione: l’amore era nell’aria nonostante gli spari sopra degli anni di piombo. Oggi nell’età degli spari virtuali, quante cose – preconcetti, pregiudizi, cortocircuiti cognitivi – galleggiano nell’aria nonostante siano pesanti come il piombo?

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