Parco Sempione è uno dei luoghi più felici di Milano. Uno spazio verde collocato nel centro di una città che alla parola “erezione” dà il significato cementizio che avrebbe dato il Trump se fosse nato sui Navigli. Intendiamoci, non è tutta colpa di Milano. Come direbbe la signora Rabbit, non è una città cattiva, è che la progettano così. Se potessimo tornare ai beati tempi del cardo e del decumano, scopriremmo che Milano era un banale presidio la cui importanza derivava dall’essere posto all’incrocio tra le più importanti vie romane; un casello praticamente. Poi, finalmente, qualcuno ebbe l’ardire di consegnare a un certo Leonardo il compito di redigere il piano regolatore. Purtroppo non passano neppure cinquecento anni ed ecco che in nome della viabilità cittadina uno sciagurato regime ricopre i canali che tanto avevano affascinato Stendhal.
Anche se dovrebbe essere un “terreno di una certa estensione piantato ad alberi ornamentali… con vaste zone a prato o a giardino, spesso ornato con vasche, fontane e piccoli edifici, destinato allo svago e al passeggio”, il Parco Sempione ospita qualsiasi manifestazione commerciale; beninteso a condizione che l’ente promotore abbia sufficiente forza economico-politica per imporla a una amministrazione comunale che è ontologicamente estranea all’idea di verde. A onor del vero come tutte quelle che l’hanno preceduta. Di conseguenza, anche se teoricamente destinato alla contemplazione e al ristoro dello spirito, il parco è animato da musicisti di strada il cui rumore di fondo fa a gara con l’inquinamento sonoro generato da motori di camion, gru, macchine movimento terra, auto e furgoni di chi monta e smonta stand, punti di ritrovo e gazebo; sui prati i segni della più genuina passione dei visitatori autoctoni e non: la plastica. Del resto perché stupirsi, siamo on siamo nella città che ha dato i natali al Moplen?
Al Sempione l’acme si raggiunge all’inizio di marzo. Ogni anno a dispetto delle promesse fa ritorno il gigantismo rugginoso dei giostrai, quelli che un tempo bivaccavano nello spazio iper-gentrificato delle Varesine, con i lampi, i suoni, le sirene e le canzonette che promanano dalle loro “attrazioni”. Ma anche loro infine se ne vanno. E scansati i contadini di Lollobrigida, evitati i podisti delle “Stramilano”, fuggite le manifestazioni dalle Radio, dribblati i turisti con guida, bandiere e cappellini, salutate le orde calate alla caccia dei Pokemon, finalmente il Parco ritorna proprietà dei seguaci di una religione che non conosce mediazioni né compromessi.
I canari si distinguono dai semplici proprietari di animali perché considerano l’esistenza condotta in compagnia di cani e canetti la sola degna di essere vissuta; pure la Betty buonanima con le sue 14 generazioni di corgie pembroke passerebbe per moderata al confronto. I più zelanti oltre a pascolare i loro (di norma numerosi) protetti s’industriano a trovare casa ai trovatelli in arrivo dal Sud.
La settimana scorsa abbiamo incontrato al Parco la signora “A”, una pusher tra le più abili. Recava con sé un cucciolo bianco e nero di circa tre mesi. Scorrazzava libero e felice tra le zampe di due paciosi maremmani. Abbiamo resistito un giorno e poi il successivo; e poi ancora, e ancora. Ma il primo d’Aprile il sole era caldo, l’erba dei pratoni più verde del solito e il caso ha voluto che ancora, nuovamente, incontrassimo la signora “A”. Insomma, c’era qualcosa di nuovo nell’aria. Il risultato lo vedete qui sotto: un fagottino bianco e nero figlio delle Calabrie. Di certo non saremo in grado di scrivere un nuovo “Cane e padrone”. Tuttavia sappiamo che con lei saremo tutti molto contenti. Nonostante Milano.
Ps: La canina blanche e noir come la Juventus ora si chiama Caterina. Catie, per gli amici.