Ogm e ricerca scientifica: moriremo di tradizione?

By on Ott 12, 2014 in Comunicazione, Contemporaneità

Per molto tempo ho evitato il problema. Mi bastava pensare che tra le multinazionali e “Terra Madre” non ci fosse partita. Errore doppio: di pigrizia intellettuale e (peggio) di conformismo. Pensare è fatica: è più comodo mettersi al riparo di schemi collaudati.

Del resto, è indubbiamente un fatto che le multinazionali, del petrolio, del farmaceutico, del cibo, siano spesso brutte e cattive e (molto più che spesso) pure stupide. Mente i contadini del mondo, così carinamente “etno” ripresi al lavoro nei campi, risvegliano in (molti) di noi i mai sopiti sensi di colpa di occidentale ex-colonialista: ah, quanto male abbiam fatto! Ah, quanta rapina e quanto sfruttamento!

E giù con i nostri (pur sensati, per carità) raccapricci per tutti i “cuori di tenebra” che l’uomo bianco-buana ha compiuto nel mondo. E continua colpevolmente a compiere, beninteso. Eppure, come due torti non fanno una ragione, anche un buon sentimento non basta a far logica.

Così il tema degli OGM, cacciato dalla porta, bandito da Slow Food e pure dalla mia amata Coop, rientra dalla finestra. Il merito è del mio giornale. Mio in senso affettivo, visto che lo leggo sin dalla nascita. (Per merito di Scalfari, certo. Che tuttavia oggi non leggo più). Che ha lodevolmente promosso e stimolato un dibattito sugli OGM. Il giornale, intendo. Dimostrando una volta di più che di giornalismo professionale avremo sempre bisogno, con buona pace dei futurologi che danno per morta l’informazione di qualità. Che è poi la sola informazione: il resto è bla-bla o cicaleccio.

Ha iniziato la Cattaneo, la senatrice-scienziata che probabilmente non passava mai il compito di latino al liceo, con la sua prosa precisa da peppietta.

Le ha risposto un Petrini decisamente sottotono, forse perché imbarazzato dal dover difendere la sua amica indiana pizzicata a dire balle dal New Yorker (il miglior mensile d’informazione statunitense, mica l’Almanacco di Frate Indovino) Ne trovate traccia qui e qui.

O forse perché finalmente a disagio, Carlo Petrini, nel dover ripetere per la milionesima volta il mantra della pera autoctona di Pizzighettone e di quanto sia bella e buona la tradizione. Parola che mi dà sempre un brivido sottile.

Poi è stata la volta di Veronesi Umberto, ormai anche trascurato per principio; hanno poi preso la penna Michele Serra e due ricercatori, Manuela Giovanetti e Roberto Defez. Altri immagino seguiranno. Nel frattempo qualcosa credo di aver capito.

Il merito, diciamolo, va alla mia amica VM – donna, ricercatrice e umanista, nel senso che lei vuol bene davvero all’umanità in carne ed ossa, quella che ha problemi e paure – e pure a Michele Serra, con il quale mi trovo in disaccordo solo quando si fa preda delle sue pippe internettiane.

Cosa mi ha detto la VM di così rilevante? Pacata e piana come solo le persone che sminuzzano a bocconi la scienza per darla in pasto in dosi edibili alle persone più fragili ed esposte (lavora in un grande ospedale a contatto con i pazienti) VM mi spiega che la questione è simile, se non identica, alla querelle libro-di-carta vs e-book. Possono benissimo convivere insieme, sostiene.

Poi leggo, finalmente, l’intervento di Serra. Abbandonato il luddismo anti-Twitter e l’orrore da faccia-libro, ritrova d’incanto tutta la sua lucidità; riporta così la questione alla sua essenza: che è sostanzialmente po-li-ti-ca.

Chi detiene le informazioni? Pochi sconosciuti funzionari della tecnica e del business o milioni e milioni di persone, contadini e non? Chi prende le decisioni e a nome di chi? Pochi, lontani, sconosciuti, membri di opachi e inarrivabili consigli d’amministrazione, o il mondo di chi produce (milioni se non miliardi di persone) e di chi consuma (noi tutti sette miliardi di esseri umani)?

Ecco, penso che questione sia (quasi) tutta qui: si tratta di studiare, sperimentare, verificare. Cioè fare scienza. In modo trasparente e totalmente pubblico, sotto il controllo dell’intera comunità scientifica e degli organi d’informazione.

Quello che resta da aggiungere riguarda l’ipocrisia: perché mai in Italia, paese Ogm free, si importano mangimi geneticamente modificati per animali di cui poi mangeremo carne, latte e derivati del latte? Perché, se l’Ogm è il “nemico” della nostra salute e della biodiversità? Io non lo so. Forse la risposta è banale. Se non stupida. Ma perché non ne ha (sinora) parlato nessuno? Non voglio ideologia, non voglio bla-bla terzomondisti: voglio sapere.

Voglio fatti, informazioni, evidenze di ricerca. Ma è difficile: nel nostro sciagurato paese ancora una volta si paga il prezzo del passato che non passa. Nello specifico, nella patria di Galileo e pure di Marconi, agiscono ancora gli effetti dell’idealismo gentilian-crociano che subordina la scienza alla filosofia (sic), veleno che tanta presa ha avuto sul panorama culturale italiano novecentesco.

Fare scienza in Italia è, ancora e sempre, un dramma. Cercare i fatti, provando e riprovando come diceva Dante, cioè dimostrando e verificando la dimostrazione, è sempre più difficile. E’ così semplice e gratificante attaccarsi all’ideologia. Di qua i buoni, là i cattivi; laggiù i guelfi (quelli bianchi o quelli neri? mah) e lassù i ghibellini.

Meglio schierarsi e non pensare. Si potrebbe correre il rischio di scoprire che anche i mulini non sono mai stati poi davvero così bianchi. Lasciamo la scienza agli altri, teniamoci la tradizione, rifuggiamo le sirene dell’innovazione. E continuiamo a essere quello che siamo diventati: un paese di cuochi e, domani, di camerieri.