Se dieci anni fa avessero detto a un milanese che la città sarebbe diventata un’attrazione turistica si sarebbe messo a ridere. Milano è un agglomerato urbano di proverbiale bruttezza privo di un linguaggio estetico unitario e riconoscibile. Un luogo per intraprendere, commerciare, scambiare, inventare; qualsiasi cosa purché non si tratti di flânerie o semplice godimento della vita. L’expo, l’orrida manifestazione che ha reificato il cibo in un mondo in cui milioni di persone soffrono la fame, ha trasformato la più piccola delle grandi città europee in un posto che milioni di turisti (8,5 nel 2023) ritengono attraente e degno di essere visitato.
Cifra che, oltre a confermare le mie convinzioni sull’intelligenza media della specie umana, deve aver provocato una sorta di vertigine da successo a più di un amministratore comunale. Ma perbacco – immagino si siano detti – siamo bravissimi! E quindi cosa si fa, beninteso oltre a far durare anni anche il più banale dei cantieri, per migliorare la qualità della vita di una città attraversata da un surplus di utenti che camminano, e mangiano e bevono mentre camminano, brucando da contenitori dei quali prima o poi si devono sbarazzare? Ma certo, ce l’abbiamo qui la soluzione: eliminiamo i cestini della spazzatura! (Ricordo che stiamo parlando di uno spazio urbano di modesta entità che, oltre ai turisti in transito, accoglie tra autoctoni e pendolari due milioni di persone).
I soliti bene informati sostengono sia una misura educativa. Poiché i milanesi (tanti, pochi, parecchi?) sversano il pattume nei cassoni a bordo strada, l’Amsa ne sta sistematicamente riducendo il numero. Una logica ineccepibile perfettamente sincrona ad un’altra iniziativa milanese: la tutela della biodiversità di parchi, aiuole spartitraffico, giardini. Un banale taglio di costi spacciato per “pratica green” nella città tra le più cementificate d’Italia (a Milano la percentuale di verde rispetto alla superficie totale è inferiore a quella Roma e Napoli). Il risultato? L’erba cresce rigogliosa e nasconde bottiglie, lattine, residui di take-away, cartacce, plastiche, preservativi, merde umane. La scusa d’altronde è perfetta: dove getto i rifiuti se i cassonetti sono scomparsi?
Chissà cosa direbbero i miei genitori, milanesi doc. Amavano la loro città dell’amore nostalgico di chi abbandonata per sfuggire ai bombardamenti non farà più ritorno. A Milano tornavano di tanto in tanto, inorgogliti per i suoi progressi (ricordo la soddisfazione di mio padre quando mi condusse a vedere gli scavi della metropolitana in piazza San Babila) come parenti che, resi estranei dal tempo e dalla distanza, osservano stupefatti la trasformazione dell’adolescente che nella memora era un bambino. Un adolescente divenuto uomo la cui passione dominante sono i soldi, tanti, senza troppe menate e possibilmente subito. I miei genitori, che tra loro parlavano un milanese che il Porta avrebbe applaudito, li chiamavano danè. Se fatti in modo non particolarmente limpido diventavano danerasch.
Tra le molte cose milanesi che oggi non ci sono più i miei genitori amavano la Milly e in particolare la sua versione di “Stramilano”. Ascoltarla oggi fa sorridere di tenerezza. Un’inconsapevole delizioso provincialismo l’accomuna alle ordinanze del Sindaco in materia di fumo all’aperto. Con la differenza che tutto di Giuseppe Sala si potrà dire, ma non che sia persona insensibile alla solidarietà e agli affetti.