Xe pèso el tacòn del buso

By on Feb 12, 2024 in Contemporaneità

Temo che l’ambasciatore israeliano Alon Bar abbia torto. A proposito delle accuse di genocidio mosse dal cantante Ghali a Israele, il diplomatico ha affermato: “Ritengo vergognoso che il palco del Festival di Sanremo sia stato sfruttato per diffondere odio e provocazioni in modo superficiale e irresponsabile”.

Penso abbia torto per due ordini di motivi. La censura, di qualsiasi tipo e forma, censura, non ha nulla a che vedere con i principi di paese democratico; in secondo luogo Sanremo è per definizione il luogo ideale di chi è disposto a denudare sul palco pure la zia Peppina pur di ottenere uno scampolo di notorietà.

Forse l’ambasciatore non sa che l’era delle dichiarazioni “superficiali e irresponsabili” ebbe inizio nel lontano 1970. La bomba alla Banca dell’Agricoltura era esplosa da poche settimane e lo scontro sociale aveva raggiunto livelli altissimi. Ma l’ineffabile Celentano in coppia con la Mori vinse quell’edizione del festival cantando “Chi non lavora non fa l’amore”, canzonetta dal fetido sapore qualunquistico reazionario. Da allora non c’è stata edizione di Sanremo senza scandali, scandaletti, provocazioni vere e fasulle. Non è forse inutile ricordare che in ambito festivaliero qualcuno si è pure tolto la vita.

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Tornando a Ghali, intervistato il giorno successivo ha precisato: “da quando ho scritto le mie prime canzoni parlo di quello che sta succedendo. Non è dal 7 ottobre, questa cosa va avanti da un po’”. Non si tratta quindi di un’esternazione estemporanea, giusto per épater la bourgeoisie (che, detto fra noi, ormai non si fa “epatare” più da nulla) ma di un pensiero – chiamiamolo così – strutturato e sistematico. I pensieri, anche e soprattutto quelli disgustosi, censurarli non serve a nulla. Anzi. Indignarsi e protestare per l’evento che ha dato loro spazio aggiunge solo ulteriore visibilità. Come dicono in Veneto, xe pèso el tacòn del buso.

I pensieri disgustosi di chi, in buona o cattiva fede, non conosce il significato storico, morale e politico della parola genocidio – i pensieri di chi equipara Israele alla Germania nazista – non si censurano: si combattono con le armi della cultura, dell’informazione, della politica e del coraggio. Il coraggio di chi non si stanca di mettere le mani nella merda e, palata dopo palata, lavora a pulire le stalle di Augia della nostra maledetta contemporaneità.

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