Pensare stanca

By on Feb 2, 2025 in Filosofia, Letteratura

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A che ora è la fine del mondo? La fine di quel Novecento che Hobsbawm definì “secolo breve” e a quanto pare così breve non fu (meglio diffidare degli storici quando usano la penna del pubblicitario). Secondo Michele Serra la fine del mondo è il momento in cui si è insediato il Trump 2.

Se mi è concesso di partecipare a questo gioco innocuo quanto insignificante come quasi tutte le cose innocue, a mio avviso la fine del mondo corrisponde a un’indagine demoscopica pubblicata nei giorni scorsi dal Times. Secondo la ricerca il 52% degli intervistati tra i 13 e i 27 anni, ovvero la famosa Generazione Z, ritiene che il Regno Unito sarebbe un posto migliore “se ci fosse un leader forte al potere che non debba preoccuparsi di elezioni e Parlamento”. Un terzo degli intervistati sostiene inoltre che “sarebbe meglio che ci fosse l’esercito a guidare il Paese”. Non male. Ma poiché al peggio non c’è limite, l’indagine ci informa che secondo il 58% degli intervistati appartenente alla GZ i post condivisi dai loro amici “sono credibili allo stesso modo, se non di più, di articoli prodotti da media e quotidiani tradizionali”.

A che ora è la fine del mondo? Come quasi tutti gli eventi realmente significativi non c’è una data precisa. Un’ora x in cui si scatena l’inferno o il paradiso, il D-Day, la morte di Cesare o il primo numero di “Linus”. Secondo la scuola de “Les Annales” è la priorità alle strutture storiche di lunga durata piuttosto che ai singoli eventi l’approccio che consente una lettura scientifica della realtà; in tal senso la fine del mondo non è il Trump 2. Quel grande e meraviglioso paese ha conosciuto turpitudini anche peggiori e saprà risollevarsi anche da questa come sempre ha fatto. La fine del mondo è il fallimento dei professionisti pagati per pensare. I membri di quella categoria sociale che un tempo chiamavamo lavoratori intellettuali. La fine del mondo è un’intera generazione di persone nate e cresciute in un paese che è stato il baluardo contro l’abominio invocare la fine della democrazia liberale.

Se c’è un rapporto di causa-effetto tra il Trump 2 (detto fra noi non solo c’è, ma è pure grande come un condominio) e la voglia di soluzioni forti compiute da uomini fortissimi che attraversa l’Europa, questo rapporto si chiama populismo. Già nel 1927 Julien Benda denunciava nel suo “Il tradimento dei chierici” le responsabilità morali prim’ancora che politiche di chi aveva il compito di pensare: “I chierici qui in causa assicurano spesso che loro ce l’hanno solo con la democrazia “bacata”, com’essa si è dimostrata piú volte nel corso di quest’ultimo cinquantennio, ma che sono tutti per una democrazia “pulita e onesta”. Non è vero niente, dato che la democrazia piú pura costituisce, per il principio di uguaglianza civica insito in essa, la formale negazione di quella società gerarchizzata che essi vogliono”. Cosa è successo dopo la G Z – quella che s’informa leggendo i post condivisi dagli amici – forse non lo sa.

Un lungo preambolo per parlare di un libro importante: “Pensare stanca” di David Bidussa (Feltrinelli). Uso l’aggettivo importante pensando alla quantità di libri insignificanti, banali, se non vergognosamente stupidi che ogni anno l’editoria italiana insiste a proporre a un paese di non lettori. Ma al di là delle inutili polemiche sulla qualità di ciò che viene scritto e pubblicato, al di là delle difficoltà dell’editoria italiana, “Pensare stanca” è un libro importante perché afferma una verità banale quanto dimenticata: “Il lavoro intellettuale” scrive Bidussa “non è estetica del pensiero, ma è fatica di pensare. Un corpo a corpo con le cose che si tenta di stringere, che ci si sforza di mettere a giorno, e di proporre alla pubblica discussione. L’impegno è prendere in carico i problemi, misurarsi con le ansie del proprio tempo, provare a dare risposte che replicano a domande. E quelle risposte, per essere proficue e segnare una crescita, devono provocare nuove domande”.

Ma chi è l’intellettuale, che cosa fa in concreto?A lungo, nell’ultimo secolo e mezzo, la parola intellettuale si è associata al concetto di guastafeste. Un’intelligenza critica che affermava la verità contro il potere. Oggi questa parola ha perduto il suo fascino o, forse ancora meglio, ha trasferito il suo fascino. Nei personaggi che invadono i nostri schermi televisivi e… occupano lo studio atteggiandosi a brutti ceffi o chiacchierano per tranquillizzarci. Se c’è una crisi dell’intellettuale, è proprio qui”. L’intervento di Zola nel gennaio 1898 in difesa di Dreyfus è l’esempio perfetto: l’intellettuale pretendendo limpidezza attua una funzione di controllo e di verifica; in tal modo mette in discussione il sistema politico chiedendo “non spazi ma risposte”

E poi cos’è successo? Abbiamo compiuto un trionfale ingresso nella modernità: “invece di attenersi alla morale della propria coscienza ciascuno di noi è indotto ad attenersi all’autorità del proprio superiore”. (Giuseppina Conte commentando Bauman). Nella seconda metà degli anni quaranta- scrive Bidussa – “Parigi diventa il centro dello scontro tra due blocchi intellettuali che si confrontavano intorno alla necessità di schierarsi, ovvero come prendere parte attivamente aderendo a uno dei due poli della Guerra fredda nascente…o invece propendere per una posizione terza”. Schierarsi anche a costo di avvallare menzogne, crimini, falsità. I “quaranta gloriosi” – gli anni che vanno dall’avvento di Reagan e Thatcher a oggi – hanno visto il completamento dell’opera. Gli intellettuali non sono più capaci di fare le due cose che secondo Canetti definiscono un intellettuale: essere segugio del proprio tempo, essere contro il proprio tempo.

Esistono ancora gli intellettuali? Soprattutto, c’è ancora un futuro per gli intellettuali? E, in caso di risposta affermativa, come riconoscerli? “Pensare stanca” è una riflessione sulla metamorfosi subita dagli intellettuali nel corso del Novecento. Bidussa propone un pantheon di pensatori nel quale s’incontrano sia figure canoniche (Benjamin, Weil, Arendt, Camus, Silone, Chiaromonte, Jesi) e altre dimenticate (Victor Serge) A questa categoria Bidussa ne aggiunge una seconda, gli “intellettuali radicali”: Said, Sontag, Judt, Bauman, Todorov. Le conclusioni a cui giunge sono nette: “dovere dell’intellettuale è rifiutare i procedimenti falsificatori, non schierarsi, mantenere il principio dell’imparzialità. La dimensione dell’intellettuale è quella di un ragionevole pessimismo. In ogni caso il modello è quello che poi Calvino propose nel Barone rampante non ci si sottrae ai doveri del proprio tempo, si partecipa, ma cercando di mantenere quella distanza critica che consente di vedere l’insieme”.

Sabato 1 febbraio, in un’importante libreria di un’importante città del Nord Italia, Fabrizio Corona ha presentato il suo ultimo libro pubblicato da un’importante casa editrice. S’intitola “La grande menzogna”. Senza dubbio venderà parecchio. Di certo assai più di “Pensare stanca”. Auguri vivissimi alle Generazioni Z di tutto il mondo (e pure a quelle a seguire).