“Sono ebreo, anche”

By on Ago 3, 2021 in Filosofia

Mi vergogno un po’ ma è andata così. Ho acquistato e letto “Sono ebreo, anche” di Arturo Schwarz solo dopo la sua morte avvenuta poche settimane fa. La distinzione acquistato/letto ha la sua importanza; il tempo di latenza in libreria è sempre più ridotto, e gli editori mandano i titoli fuori catalogo con la velocità con cui si sgranocchiano le patatine fritte. Per nostra fortuna i libri non sono come gli incontri che abbiamo rinviato o le parole che non abbiamo pronunciato nell’illusione che ne avremmo avuto il tempo. Se si ha l’avvertenza di comprarli all’impronta, i libri sono pazienti e sanno aspettare senza fare troppe storie. Fine del prologo.

Il sottotitolo del libro di Schwarz (“Riflessioni di un ateo anarchico”) spiega il suo valore; o meglio: la sua utilità. Di norma mi guardo bene dal citare, per dirla con Marx, il “valore d’uso” di un libro, un quadro, un quartetto d’archi. Memore dell’aforisma (“A cosa serve Mozart? A lei nulla signora” rispose stupito il pianista alla padrona di casa che lo complimentava dopo l’esecuzione) mi guardo bene dal domandarmi a che serva leggere questa piuttosto che quest’altra opera. Le domande interessanti secondo Haim Baharier, altro pensatore parecchio stimolante, sono quelle che non hanno risposta, mentre le altre non meritano risposta. Leggere “Sono ebreo, anche” ha invece la sua brava utilità marginale. Nel senso che questo piccolo libro genera un plus valore, (chiamiamolo così per comodità) oltre al piacere in sé della lettura: un’idea diversa di quella che noi goyim siamo abituati ad avere dell’ebraismo e della cultura ebraica in genere.

Inutile fare giri di parole. Nell’immaginario collettivo della stragrande maggioranza delle persone “ebraismo” e “ebraicità” oggi rimandano a Israele. Tenendo conto che sempre per la medesima stragrande maggioranza di persone le sole fonti informative sono qualche brandello di telegiornale e una manciata di opinioni neppure opinabili ma di norma scandalose pescate a caso sui social, l’identità Israele = ebraismo si produce al volo senza mediazioni né sfumature. Innegabile che Israele sia l’espressione più vigorosa dell’ebraismo contemporaneo, se non addirittura la manifestazione fisica della storia e della cultura del popolo ebraico, è tuttavia altrettanto innegabile che Israele per il fatto stesso – a scanso di equivoci: sacrosanto – di essere costretto a difendere l’incolumità dei suoi abitanti e la sua stessa esistenza, appaia sotto lo spirito di Nike piuttosto che quello di Armonia. Israele è il coraggio, la determinazione, l’intelligenza, la forza, ma anche la violenza e l’esecrabile nazionalismo, conseguenza quest’ultima dell’essere minacciato di distruzione sin dal giorno della sua fondazione.

Ma il pensiero ebraico – è imbarazzante, ma si è costretti e ricordarlo – non va confuso con il volto ferrigno di Israele. La sterminata mole delle interpretazioni e dei commenti alle Scritture, alle regole e comandamenti della tradizione religiosa, le mémoires di vita e cultura ebraica e la straordinaria letteratura yiddish che, nonostante la Shoah è giunta sino a noi, formano un continente compatto e al tempo stesso variegato che il viandante ogni volta attraversa con stupore e meraviglia senza mai cadere preda della noia o della banalità.

Eppure (o forse avrei dovuto usare il ma avversativo) leggere Schwarz è un’altra cosa. A differenza dalle riflessioni dei maestri che interpretano i testi della tradizione ebraica, le sue parole non ci consegnano il sapore esoterico che, inevitabilmente, finisce con l’assumere ogni narrazione di natura mistica. E neppure la tenerezza dei racconti della tradizione chassidica che pretendono la sospensione dell’incredulità per essere godute appieno (l’equivalente testuale delle immagini di Chagall?) o lo stupore dei racconti di Bruno Schulz che miracolosamente sono arrivati sino a noi. Schwarz interpreta il pensiero ebraico calandolo nella nostra contemporaneità perché “è un ebreo, anche”. In quella piccola virgola ci sono molte cose contemporaneamente, e l’essere molte cose contemporaneamente è l’essenza della modernità: la fatica che ogni giorno viene compiuta per “tenere insieme” le mille sfaccettature che compongono la nostra identità.

“Sono ebreo, anche” è un manuale. Basta la lettura delle prima dieci pagine per comprendere che l’ebraismo è innanzitutto rifiuto dell’autoritarismo: cultura di libertà, di dissenso, polemica, contestazione, ribellione, ricerca ininterrotta di senso e di significato. Una libertà così sfacciata che è libera di porsi in modo libero addirittura persino di fronte a Dio. Schwarz racconta questa libertà in nove capitoli. Il decimo è dedicato a Spinoza, il filosofo della libertà e della felicità, la cui vertiginosa profondità spinge al balbettio anche il lettore specialista. Schwartz riesce a rendere piano e luminoso il pensiero dell’uomo che riuscì nell’impresa di farsi odiare in egual misura da ebrei e da cattolici in un secolo, il Seicento, in cui la religione era diventata violento fondamentalismo.

Dice nella prefazione Rav Giuseppe Laras che “di tipi come Schwarz, fra gli ebrei, ce ne sono parecchi: non solo, ce ne sono stati sempre”. Irregolari, libertari, liberi. Forse non tutti anarchici, atei, surrealisti e pure trotskisti come lui (l’adesione al trotskismo è la sola cosa che mi perplime). A dimostrazione che non è indispensabile essere uomo di fede per vivere in un modo autenticamente spirituale; che esiste un umanesimo laico; che, forse, è il solo umanesimo possibile per chi vive compiutamente la modernità. Che essere “ebreo di sinistra” come amava definirsi è un mestiere particolarmente indispensabile di questi tempi.

Dopo l’imbarazzo per non averlo letto (cioè incontrato) prima, una piccola coincidenza. “Sono ebreo, anche” è il frutto di una conferenza tenuta nella sinagoga di Casale Monferrato, luogo di culto che ho visitato più di una volta nel corso della mia adolescenza.

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