Un giorno qualcuno ti chiederà

By on Feb 27, 2024 in Comunicazione, Contemporaneità, Scienze

lucy

Preambolo

Così, un giorno qualunque – giusto nel momento in cui l’esaurirsi del dentifricio ci sorprende con lo spazzolino in mano – scopriamo che un numero incredibilmente grande di persone è convinta che la Terra sia piatta; e un numero ancora più grande che l’uomo non abbia mai posato piede sulla Luna. Disgrazie tutto sommato tollerabili come le piccole bugie degli anziani, se non fosse che fanno naturale corona alla più disgustosa diceria dell’untore: la Shoah come opera d’invenzione delle perfide menti ebraiche. Perché ciò accada resta un mistero. Forse perché la scienza è incomprensibile?

La scienza genera angoscia

E’ accaduto nel Seicento, secolo “scientifico” quanto mai. E poi ancora a cavallo tra Settecento e Ottocento, con l’esplosione incontrollabile di complottismi e manie di persecuzione. (Ne parla in modo memorabile I. Berlin nel suo “Le radici del Romanticismo”; ho provato a raccontarlo qui.). Accade oggi e accadrà ancora, quanto più la scienza progredisce e risolve vecchi dubbi creandone di nuovi. Perché questo è il mestiere della scienza: spostare il confine di ciò che non sappiamo un po’ più in là. Regalandoci nel frattempo una qualità di vita, una sicurezza di vita, una ricchezza di vita, inaudita e impensabile a chi ha chiuso gli occhi anche solo una cinquantina di anni fa. La scienza genera angoscia: sempre e particolarmente agli individui più deboli e privi (anche) dei più semplici strumenti di interpretazione. (Ricordate? Copernico ci tolse dal centro dell’universo, Darwin cancellò l’idea che siamo figli degli angeli; e mentre Freud svelava l’abisso delle nostre emozioni, l’imperturbabile Einstein cancellava per sempre l’ultima delle certezze riguardo agli assoluti).

Leggere la scienza

Leggere la scienza è impossibile. Solo un’infima minoranza della popolazione mondiale è in grado di leggere con costrutto gli articoli pubblicati da “Nature” o da “Science”, le più autorevoli riviste scientifiche del pianeta. Quel che è più divertente, e per certi versi anche assai consolante, è che non lo sono neppure coloro che fanno il mestiere della scienza. Se fino agli inizi dell’Ottocento qualunque individuo mediamente erudito era in condizione di comprendere (quasi) ogni proposizione scientifica, oggi la sola idea fa sorridere: la scienza ha assunto le fattezze di un’infinita biblioteca di Babele i cui libri sono scritti nelle lingue delle diverse branche del sapere. Il contesto che rendeva possibile attribuire al Principe di Salina il ruolo di stimato astronomo dilettante non esiste più, ed è parimenti curioso notare come l’espressione “dilettante” mutando significato sia divenuta oggi sinonimo di superficialità pasticciona. Non chiedete a uno studioso di topologia se sia meglio usare il carbonio 14 piuttosto che il potassio-argon per datare un reperto archeologico; come un esperto di Building Information Modeling è perso dinnanzi a un saggio di biologia evolutiva, così un filologo classico è incapace di comprendere la meccanica quantistica. E non è solo un problema di specializzazione: per l’uomo qualunque leggere di qualunque scienza è impossibile. Eppure il destino della scienza è (indissolubilmente) legato all’uomo qualunque. E’ lui, l’uomo senza (particolari) qualità, colui il quale rende possibile il mestiere della scienza. E’ lui che finanzia la scienza pagando le tasse.

Elogio della divulgazione

E quindi? Quindi benedetto il divulgatore. Le persone che, oltre a sapere di scienza, la sanno anche raccontare. Trasformandola in un racconto avvincente. E convincente perché avvincente. Non c’è uomo (nel senso di umanità) senza storie. E non c’è storia senza bivacco, senza fuoco, senza accoglienza, senza cibo e senza bevande. La scienza ha bisogno di racconto, e di cibo e bevande a sostegno del narratore che si appresta a narrare, e degli astanti che si predispongono a subire il fascino dal racconto.

Raccontami una storia

L’ultima storia di scienza che ho letto la racconta (benissimo) Giorgio Manzi. Il suo “Antenati. Lucy e altri racconti dal tempo profondo” (Il Mulino) è una passeggiata di salute per l’ignorante curioso che ha desiderio (bisogno) di saperne un po’ di più riguardo a chi eravamo (a chi siamo stati) a partire da 3,2 milioni di anni fa. Una passeggiata nel bosco narrativo della storia evolutiva che ci ha fatto prima scendere dal pero, poi camminare eretti nella savana, e infine “progredire” sino allo stato attuale: noi, l’unico animale che ha fatto talmente carriera da essere in grado di porsi domande teleologiche (qual è l’obiettivo?) ma anche epistemologiche (come faccio a conoscere?) e infine tecnologiche (quali strumenti mi servono per?). Domande a cui la mia pur amatissima Madeleine non sa dare risposta, e che saggiamente neppure si pone.

E quindi?

Giorgio Manzi (non so se sia parente del maestro più amato d’Italia, ma sarebbe bellissimo) nella prefazione inventa una storia nella storia: le pagine che compongono il suo racconto scientifico sono state trovate da esploratori provenienti da mondi alieni; la loro relazione narra di un pianeta bellissimo ma totalmente spopolato a causa dell’imbecillità distruttiva degli antichi abitanti. A buon intenditor, come si diceva un tempo, poche parole. Resta il fatto che se l’uomo qualunque (io, insieme a qualche altro miliardo) “non conosce e non capisce” la democrazia come la intendiamo qui in Occidente è nei guai, seri. Perché mentre la bellezza non ha mai salvato nessuno, la scienza non fa altro sin dai tempi di Aristotele. Nonostante noi, beninteso.